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di Edi Orioli !

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Lettera Aperta


"Alba del 4 gennaio 1986. La mia prima notte nel deserto è appena trascorsa e io muoio dalla voglia di immergere i miei occhi nei primi raggi del sole africano. Avverto in me tutto l'entusiasmo della matricola. Qualcosa mi dice che sto per immagazzinare uno dei ricordi più puri e forti della mia vita.

Non mi sbagliavo. Il ricordo me lo sono cercato per bene e non mi abbandonerà per il resto dei miei giorni. Si presenta sotto forma di un freddo barbino, sugli zero gradi centigradi, che mi coglie seminudo e con un espressione ebete tra le dune, fortunatamente senza testimoni. La pelle comincia a reclamare il calduccio del sacco a pelo, il resto di me maledice la mia avventatezza da burba del Sahara."

Comincia così il diario della mia prima Parigi-Dakar, due parole che ancora oggi risvegliano in me il timore reverenziale che devi alle grandi prove della vita.

Eppure alla Parigi-Dakar io devo tutto. Devo il bagaglio di esperienze e insegnamenti che hanno fatto di me l'Edi Orioli che conoscete. Devo la paura ma anche l'estasi di viaggiare in piedi sulle pedane per ore, mentre il destriero meccanico sotto di me artiglia la sabbia a 200 km all'ora.

Ma soprattutto devo i miei segni caratteriali più marcati e indelebili, come zoccolate di mulo sulla pelle: sono la profonda allergia alla staticità e quella specie di tarlo insistente che mi spinge a sfidare l'ignoto, che poi è lo specchio di me stesso.

Insomma devo tutto quello che sono e che non sono.

E pensare che tutto era cominciato con lo zampino di mio padre. Fu lui a regalarmi il mio primo Gori 50 per il diploma di terza media. Una moto di seconda mano, con una manciata di cavalli alla ruota, ma che mi insegna molto di una due ruote. La grippo e sbiello tre volte e per tre volte la smonto e rimonto con pazienza e cocciutaggine, finché non si degna di ripartire. E' una palestra che porta buoni frutti: il titolo italiano di enduro 1979 su SWM a 17 anni e il primo Campionato Coppa del mondo alla 6 giorni nel 1980.

Tocco il cielo con un dito, anche se mio padre dopo ogni corsa mi riporta a casa a studiare.

Siamo a metà degli anni 80. Il Destino ha scritto una data e un nome nel suo librone rilegato e io incappo in entrambi. E' il 1986 e Massimo Ormeni, allora direttore sportivo della Honda, mi chiede di partecipare alla Parigi-Dakar. Non ricordo di aver dormito bene quella notte, perché per me è un sogno che si avvera bruscamente.

Dio mio, penso, e ora sarò all'altezza di tanta fiducia?

La risposta a questa domanda arriva due anni dopo per la gioia mia, del team Honda e di quel "toscanaccio" di Ormeni: vinco la mia prima Parigi-Dakar, quella dell'alba tragica tanto per intenderci. Sbaragliando i blasonati francesi (gli inventori della gara) e altre decine di concorrenti internazionali, Edi Orioli da Udine, indomito cavaliere di un'indomita Honda NXR 750, è incoronato Re del Deserto tra gli spari dei tuareg e i flash della stampa.

Nel 90 bisso il successo su Cagiva e nel 92, forse per un colpo di sole, mi prende la voglia di sfidare il deserto su un'auto. Così partecipo al Rally dei Faraoni su Mercedes dove termino la gara alla quinta posizione. Niente male per un debuttante.

Ma è la moto che mi richiama all'ordine, le 4 ruote ritornano 2 e il Re del Deserto colpisce ancora, con una Cagiva nel 94 e con la Yamaha nel 96. Ritorna l'Edi Orioli di sempre, quello che ha cominciato sporcandosi col grasso di un cinquantino ed è finito nel palmares delle competizioni desertiche per quattro volte nella storia.

Quando tutto sembra riportare il mio elettrocardiogramma verso valori più umani, ecco riaccendersi la sfida. BMW mi fa una proposta che io non posso rifiutare: andare e vincere il deserto per la quinta volta. Diavolo, è una sfida ritagliata intorno a me.

Saranno due anni di difficile ed esaltante impegno, anche se poi non sarò io a raccogliere il frutto di quel lavoro a cui avevo dedicato la stessa anima di sempre. E' la dura legge del deserto e della vita, mi dice qualcuno, anche se io alle regole non credo.

Mi dicono: Edi, metti la testa a posto, trovati un lavoro tranquillo, magari dietro una scrivania di qualche concessionaria. In fondo cominci ad avere i tuoi bei 38 anni.

Palle. La Dakar mi ha dato tanto ma io non considero ancora chiusa la partita. Nel frattempo c'è una domanda che mi turbina nel cervello: arriverà la tanto agognata sfida di una marca italiana? E' possibile che nessuno si faccia avanti nemmeno tra i giapponesi?

Aspetta Edi, non correre. Per una volta non pensare a ciò che ti manca ma a quello che hai. Fermati e pensa a quello che la Dakar ti ha già donato, che hai gustato, vissuto, consumato e incamerato nel deposito delle tue esperienze. E pensa a quante volte ti sei detto: beh, mi ci vorrebbe una pausa di riflessione, giusto per sorseggiare ogni trascorsa emozione come una coppa di Picolit millesimato.

Allora mi dico: in fondo il mio contachilometri di uomo è appena agli inizi e chissà quanti deserti ci sono ancora da solcare.

Ma questa è un'altra storia e ve la racconterò un'altra volta.


Edi